Gianfranco Ferraro
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Le regole del dolore

Le regole del dolore Tuol sleng Genocide Museum. Cambogia, 2013
C’è un filo conduttore che lega tutti i Luoghi della Memoria - e dell’Orrore - sparsi nel mondo a testimonianza delle aberrazioni che i totalitarismi hanno prodotto nel secolo appena trascorso: Aushwitz, Belzec, Birkenau, i Gulag sovietici, l’ESMA (Escuela Superior De Mecànica De La Armada) di Buenos Aires, l’Estadio Nacional de Chile, Ginkongoro in Ruanda, Srebrenica e Ahbu Graib, solo per citarne qualcuno. Un filo conduttore che è, a mio avviso, la sospensione della parola: nulla, infatti, di scritto o pronunciato è in grado di descrivere il paradigma terrifico che vede l’essere umano al centro della rappresentazione del più grande crimine contro la dignità umana: la tortura. Corridoi, pavimenti, finestre, pareti, grate, ringhiere, intonaci, terreno, cancelli, ogni centimetro di questi luoghi è pervaso da un ineluttabile senso di perdita: non esiste più il tempo, né alcuna coordinata geografica. Tutto questo accade anche a Choeung Ek, 15 km da Phnom Penh, Cambogia, in un ex liceo trasformato in campo di sterminio dai Khmer Rossi di Pol Pot, tristemente conosciuto come S-21, centro di tortura e detenzione in cui, è stato calcolato, dal 1975 al 1979, persero la vita tra le 17.000 e le 20.000 persone, e che oggi è diventato il Tuol Sleng Genocide Museum. Il personale della prigione aveva l’ordine di compilare un resoconto dettagliato di ogni prigioniero, con una fotografia acclusa. Nonostante prima della fuga i Khmer Rossi abbiano cercato di nascondere le prove dello sterminio, sono state trovate le foto, quelle segnaletiche e quelle scattate ai cadaveri come prova dell'eliminazione dei prigionieri. E’ accertato che all'interno del carcere abbiano perso la vita anche circa 2.000 bambini. La struttura è rimasta così come è stata lasciata dai Khmer Rossi dopo la loro fuga nel 1979. Alcune stanze del museo sono oggi tappezzate con le foto in bianco e nero di molti degli internati nella prigione, altre contengono solo brande arrugginite, sbarre di ferro e strumenti di tortura. A partire dagli anni’80 ogni centimetro di Tuol Sleng è diventato soggetto di riproduzione fotografica e in tanti, professionisti o semplici amatori, si sono cimentati con la narrazione per immagini di quel tempio del dolore e della paura. Chi scrive è convinto che i luoghi fisici abbiano la capacita di assorbire le energie impalpabili di cui sono fatti gli uomini; energie che rimangono imbrigliate dentro uno spazio circoscritto, così che intonaci, vernici, legno, mattoni, interstizi, oggetti, piante e polvere diventano il riverbero di una presenza invisibile ed eterna. Questo accade in quei luoghi che abbiano memoria di amori, azioni e sentimenti elevati, ma ancora più forte è il passaggio laddove si è consumato l’orrore. E non è del tutto impossibile che, con la mente e il cuore assorti, si possa percepire lo sgomento per la perdita della dignità nell’istante preciso in cui è accaduto. Le regole del dolore sono le regole che è ancora possibile leggere su una lavagna conservata, insieme ad altri oggetti, a Tuol Sleng. Un decalogo della sottomissione che tutt’ora sopravvive al tempo, testimonianza della lucida follia insita nella barbarie: dieci regole alle quali i reclusi dovevano attenersi scrupolosamente
… numero 6: non devi assolutamente piangere mentre ricevi l'elettroshock o le frustate … numero 7: non fare nulla, siediti e attendi i miei ordini. Se non ci sono ordini, rimani in silenzio. Quando ti chiedo di fare qualcosa, devi eseguire immediatamente senza protestare …
Osservando le immagini di Gianfranco Ferraro mi vengono in mente i versi della poetessa polacca Wislawa Szymborska, e l’associazione non è affatto casuale poiché sono versi in cui l’artista rappresenta proprio la tortura. “(…) Nulla è cambiato. C’è soltanto più gente, alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove, reali, fittizie, temporanee e inesistenti, ma il grido con cui il corpo ne risponderà, è e sarà un grido di innocenza, secondo un registro e una scala eterni (…) Mentre il corpo c’è, e c’è, e c’è e non trova riparo”. In questo percorso per immagini lo sguardo dell’autore muta continuamente ma senza mai discostarsi da quella condizione di sospensione della parola, un silenzio che da atto opportuno, di circostanza, ora diviene condizione obbligata. Muta quando, a volte, la composizione e la prospettiva scivolano in secondo piano cedendo il passo alle geometrie dell’assenza, di quel senso di vuoto che pervade chi è spettatore in un luogo in cui la vita è stata profanata. Geometrie dell’assenza e non dello spazio: ecco che in alcune immagini lo sguardo segue traiettorie inusuali, talvolta al di sopra o al di sotto di una prospettiva più immediata. Più avanti, invece, si sofferma su di un segno inquietante lasciato sulle pareti, in cerca di una risposta. Poi, ancora, quando ad essere ritratta è una fotografia– crocevia quasi obbligato nell’S-21 -, sono i toni appiattiti e nebulosi - della fotografia che riproduce se stessa - , deteriorati come la ragione umana, che in quei luoghi è andata perduta per sempre, che divengono preponderanti. Nelle immagini che ci conducono verso la fine di questo itinerario di bianchi neri e grigi i visitatori diventano ombre, e si ha quasi la sensazione che anche noi, mentre guardiamo le immagini diveniamo ombra. Ombre e riflessi. Chi è immortalato mentre percorre quelle stanze appare smarrito, catturato da un’indefinibile vortice distorto, diventa un elemento stesso della composizione, fuso in un tutt’uno di trasparenze in cui corpi privi di vita, emergono solo dopo uno sguardo attento. Ombre e riflessi. Un monito. Quasi come se attraverso questa fusione di elementi diventasse più chiara quella porzione di responsabilità che ci appartiene in quanto esseri umani, e insieme ad essa la paura di andare in frantumi. Ombre, riflessi, trasparenze e silenzio. L’uomo ha le sue strategie per rifiutare l’orrore e non venirne consumato, questi luoghi possono contagiare irrimediabilmente, per tale motivo spesso si coglie solo una suggestione incerta che talvolta è un vago senso di cupezza, talaltra è la necessità di fuggire, di allontanarsi. Grazie ad una ricerca attenta, orientata verso l’essenziale, e scevra da qualsiasi enfasi, le immagini di Gianfranco Ferraro hanno la forza di restituire proprio quella suggestione, in un contesto in cui a persistere è l’eco inafferrabile di ciò che tra le mura di un posto come Tuol Sleng si è consumato. Inoltre, e non è mai abbastanza, ci ricordano l’obbligo morale di non dimenticare.
Nazzareno Suriano



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